Un prete fatto popolo

Il prossimo 19 marzo sarà una data assai particolare: non solo si celebrerà la Festa del papà e per chi è credente San Giuseppe– ma sarà anche la ricorrenza per i 30 anni dalla morte di Don Peppe Diana. 30 anni, un lasso di tempo enorme eppure -a volte- sembra che nulla sia cambiato in quelle periferie che mai come ora si dimostrano bisognose di prossimità e di azioni concrete sul territorio. Certo la chiesa nel corso dei decenni ha fatto molto: ha proclamato scomuniche verso gli appartenenti alla criminalità organizzata, sempre più spesso si può assistere a marce per la Pace organizzate dalle Diocesi o si può prendere parte a manifestazioni realizzate in collaborazione con l’Associazione Libera ideata e fondata assieme al Gruppo Abele da Don Luigi Ciotti, ma quando i riflettori si spengono una volta concluse quelle che io chiamo “dimostrazioni civiche” -che dovrebbero essere un quotidiano metterci la faccia e scendere seriamente in campo e non un una tantum e solo quando “accade qualcosa”-, cosa rimane? Cambia davvero qualcosa nell’agire e nella mentalità dei cittadini (piccoli o grandi che siano) che ne prendono parte?

A seguire le ultime notizie di cronaca la risposta sarebbe un No, secco e amaro. Solo a guardare la Calabria (regione che per me è casa) apprendiamo in questi primi due mesi del 2024 ad esempio di Don Giovanni Rigoli che a Varapodio in provincia di Reggio Calabria lo scorso 15 gennaio è stato aggredito al termine di una funzione funebre finendo in ospedale e ad inizio febbraio ha ricevuto una nuova intimidazione, questa volta ad avere la peggio è stata la sua auto data alle fiamme; o ancora Don Felice Palamara a San Nicola di Pannaconi in provincia di Vibo Valentia si è reso conto in tempo che nelle ampolline dell’acqua e del vino era stata inserita della candeggina! Allo sgomento e all’incredulità si vanno a sommare altre domande: per fortuna loro sono riusciti a sventare questi agguati, ma se così non fosse stato? Quanti Don Peppe Diana o quanti Don Pino Puglisi devono ancora esserci prima che -finalmente- crolli questo velo di omertà che avvolge ogni cosa; quanto ancora deve succedere prima che si dica Basta! con convinzione e in maniera definitiva?

È necessario quindi smuovere le coscienze, un poco ogni giorno, ed io mi ritengo estremamente fortunata nel poter chiamare amico Don Vincenzo Leonardo Manuli:

[…] un cocciuto prete che ama creare spazi per l’interrogazione riflessiva, ispirata dalle esigenze di un pensiero critico e costruttore di conoscenze […], parole queste prese in prestito -e che condivido- dalla nuova e non ultima prefazione che vede la firma del sociologo Mimmo Petullà: infatti lo scorso febbraio il Manuli ha arricchito la sua vasta serie di pubblicazioni con il saggio “Mi chiamo Don Peppe Diana – Un prete fatto popolo“, edito dalla Pellegrini Editore.

In questa opera di 128 pagine (che ho avuto modo di leggere nella versione bozza prima che venisse dato alle stampe e in cui già era avvertibile questo senso di urgenza e ardore misti alla semplicità delle parole scelte) sono intuibili e tangibili alcune cose alle quali non pensiamo mai, per distrazione o perché non affatto abituati a concepire come uomini e donne -con le loro debolezze e le loro fragilità– quegli uomini e quelle donne che hanno intrapreso una scelta di vita vocazionale.

In queste pagine brutalità umana e coraggiosa resistenza si alternano nell’esposizione di ciò che è stato e ci mettono davanti al fatto compiuto: un bivio, una scelta da compiere. Cos’è diventata l’umanità? Verso dove sta andando? Di certo verso l’autodistruzione a vedere i tg che appaiono come una lunga, estenuante e infinita scia di sangue dove l’orrore, la morte e le guerre non solo non indignano più, ma sembrano ormai la “normale quotidianità” entro cui nulla più fa effetto, come se fossimo assuefatti dall’apocalisse. Ed è proprio in contesti come questi che figure come Don Peppe Diana risultano fin troppo attuali e contemporanee, con quella voglia di spregiudicata speranza che sì fa rabbrividire. Venne ucciso a pochi minuti dall’inizio della funzione giornaliera: impedire ad un uomo di chiesa di celebrare è come dire ad un curatore di giardini che non si occuperà mai più di piante. Eppure qualcosa rimane: nelle relazioni umane intessute, nella vicinanza dimostrata, nella condivisione delle giornate belle e meno belle, nel volersi bene con rispetto, ecco che le parole si fanno gesto e soprattutto inchiostro: nel libro di Manuli da pag. 111 viene riportata la lettera “Per amore del mio popolo” redatta da Don Diana e firmata all’epoca da altri parroci che sostenevano le sue idee rivoluzionarie atte a perseguitare la “nobile lotta per la giustizia“. Vengono messe nero su bianco le preoccupazioni, le responsabilità politiche, l’impegno dei cristiani e a conclusione un appello:

Le nostre “Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”

[…]

non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “siamo rimasti lontani dalla pace”. La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso, dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare, sono come assenzio e veleno.

Per questo sono necessari libri come questo di Leonardo Manuli e il ricordare figure come quella di Don Peppe Diana, perché come dei campanellini ci richiamano ad un agire comune e ad uno scuotere le coscienze che sempre più annaspano all’interno di un avviluppante e progressivo degrado dell’ambiente morale e civile.

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