Si può fermare il tempo? È possibile? E farlo ripartire a piacimento si può?

Di certo in questo appuntamento serale all’interno -della rassegna Primavera dei Teatri svoltasi a Castrovillari- di tempo ne abbiamo vissuto in svariate sfumature: il tempo d’attesa al di fuori del Teatro Vittoria da poco intitolato all’attore e regista Giuseppe M. Maradei (attesa che stava anche per tramutarsi in nervosismo da parte del pubblico per via della non accessibilità della sala all’orario previsto); d’ascolto che vede il pubblico ben attento alla narrazione che sta per srotolarsi sotto i suoi occhi; di memoria nel ricordare volti e luoghi attraversati nello spazio-tempo; d’immaginazione nel ripercorre o nel provare a “visionare” nella mente come doveva apparire quel quartiere negli anni narrati; d’incontro nel ritrovare fra quelle poltrone rosse volti familiari e di verbo nel sentire espressioni e parole perdute…

Il testo che Saverio ci narra è una storia intima, biografica, che vede come fulcri predominanti due momenti difficilissimi della sua storia personale e che vengono annodati assieme da aneddoti, volti, accadimenti, soprannomi e malinconica ironia.

Per chi segue come me il lavoro teatrale di La Ruina e lo ha visto più volte all’opera apprezzandone qualità estro e capacità, in questa sua ultima fatica (fatica non tanto per dire, ma nel senso stretto del termine perché immedesimandomi in lui deve essere stato realmente faticoso realizzare questo Via Del Popolo) troviamo innanzi a noi un Saverio diverso: un Saverio che con la grazia che lo contraddistingue riesce a portare in scena un testo che sentiva urgente e pertanto si spoglia di quella “rigidità” attoriale e appare quasi “liberato”, sciolto, leggero sebbene in alcuni momenti -vuoi l’emozione, vuoi il trasporto- ci siano stati delle incrinature e la voce appariva più roca e a corto di respiro.

Poi c’è stato un attimo, non so dire quando di preciso, che questo suo monologo biografico mi ha fatto tornare in mente un altro monologo divenuto celebre, ma di stampo cinematografico e sto parlando della voce fuori campo della Nonna in Mine Vaganti, del regista Ferzan Ozpetek, quando parla al suo funerale:

Chi lo sa se questi luoghi avranno memoria di me. Se le statue, le facciate delle chiese, si ricorderanno il mio nome. Voglio camminare un’ultima volta per queste strade che mi hanno accolto tanti anni fa quando tutti mi chiamavano “la toscana”. Voglio vedere le pietre gialle, tutta quella luce che ti toglie il respiro. Se le strade conserveranno il rumore dei miei passi. La mia città, la città di Lecce, la devo salutare prima di partire. […] La mina vagante se ne è andata. Così mi chiamavate pensando che non vi sentissi. Ma le mine vaganti servono a portare il disordine, a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a scombinare tutto, a cambiare i piani.

Chissà se i luoghi avranno memoria di noi quando il nostro tempo sarà compiuto, di certo questa sera ho conosciuto una Castrovillari che non immaginavo (sebbene l’attraversi quasi quotidianamente) di certo la città che si fa padre e si fa madre e viceversa, continuerà a vivere nell’amore di chi ha amato, narrato, vissuto, scandito tempo ed emozioni e non cancella, ma amplifica il nostro sentire, il nostro affatato abbandono, il nostro sguardo che mai si stancherà di “vederci” lì dove siamo sempre stati e dove ci faremo trovare.

3 Grazie per il tuo Tempo ed il tuo Amore