Qualche sera fa sono riuscita -finalmente- a recuperare il film Tre piani del regista Nanni Moretti. L’opera del 2021 (presentata in anteprima alla 74ª edizione del Festival di Cannes) è tratta dal romanzo di Eshkol Nevo, mentre la sceneggiatura porta la firma di Federica Pontremoli, Valia Santelli e dello stesso Moretti.

Quando uscì nelle sale non andai a vederlo volutamente e la motivazione unica di questa scelta fu che temevo il covid: non reputavo le sale cinematografiche come posti sicuri e questo perché abitando in un piccolo paese della provincia calabrese, per natura, diffidi di ogni cosa, raramente ci si concede con slancio. Così il film finì nella lista della cose da “recuperare/vedere”. Qualche sera fa -dicevo- lo trasmisero in chiaro su Rai3: non lo vidi nemmeno in quel caso, ero sicura che gli stacchi pubblicitari lo avrebbero rovinato; lo visionai la sera seguente sulla piattaforma RaiPlay. E tutto ciò porta con sé un’ironia intrinseca: Moretti che pur di far uscire il film nelle sale si rifiutò di “ripiegare” sulle piattaforme durante la pandemia ed io che lo recupero su piattaforma per aver dato credito alla mia paura della non sicurezza della sala in quel periodo.

Sino a qui emergono due cose: la piattaforma streaming (qualunque essa sia) aiuta parecchio, ma per chi può, certi film vanno visti in sala e Tre piani era uno di questi film; la paura ti si appiccica addosso per quasi tutto il film ed è ciò che muove ogni cosa.

Ma andiamo con ordine. Partono i titoli di testa ed io sto già lì commossa: inquadratura fissa su ciò che sarà determinante per la trama, nomi che scorrono, atmosfera creata dalla scelta delle ombre che prevalgono in un contesto notturno e dalla musica di sottofondo con le sue “note pedali” grevi. Cinema “vecchia scuola” insomma ed io non potrei esserne più felice. La musica ascoltata così d’impatto mi ricorda qualcosa: mi ricorda il mare -non so perché- forse dipende da alcune arpeggiature costanti e un po’ aspre, con gli attacchi degli accordi che restano appiccicati nella mente… poi leggo che il compositore è Franco Piersanti e mi dico: “è Montalbano, ecco cos’era il mare di fondo che sentivo!” Solo per la scelta delle musiche Moretti ha già tutta la mia attenzione e il mio amore. I titoli di testa terminano e l’atmosfera notturna, vagamente tranquilla, si tramuta in ansia sin dalle primissime immagini come per certi film dei fratelli Dardenne: bellissimi, duri, spietati e ricchi d’ansia (che questo “taglio alla francese” sia dovuto alla co-produzione Italia-Francia? Chissà!). C’è da dire che questo è per Moretti il primo film con trama non originale che realizza, ma andiamo avanti. Pochissimi stacchi ravvicinati e sullo schermo letteralmente “esplodono” diversi incidenti scatenanti che sono il motore di ciò che accade ai protagonisti.

[Per chi non sapesse cos’è un incidente scatenante: è quel qualcosa senza il quale i vari personaggi non deciderebbero di compiere determinate cose, insomma è la “miccia” che va ad innescare scelte, comportamenti, decisioni, la trama stessa; è il “là” che si dipana e fa srotolare gli eventi]

E quindi ecco che la facciata inquadrata fissamente lungo i titoli di testa, si anima, prende vita e come se fossimo a teatro ecco che entrano in scena i vari protagonisti delle vicende a cui prenderemo parte in quanto spettatori. Troveremo quindi le famiglie:

  1. giudice Vittorio Bardi, sua moglie Dora Simoncini e il figlio Andrea (Nanni Moretti, Margherita Buy e Alessandro Sperduti)
  2. Lucio Polara, sua moglie Sara e sua figlia Francesca (Riccardo Scamarcio, Elena Lietti e Chiara Balsamo/ Giulia Coppari / Gea Dall’Orto che interpretano la bambina in tre età differenti)
  3. Monica, Giorgio e la piccola Beatrice (Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Alice Adamu / Letizia Arno interpretano la bambina in età differenti)
  4. Giovanna, Renato e la nipote Charlotte (Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Denise Tantucci)

Questi nuclei familiari apparentemente distinti e a se stanti -con le loro problematiche interne e le loro dinamiche- inizieranno a fondersi pian piano, e come in un gioco di riflessi, i timori dell’uno diverranno nel tempo le risposte dell’altro. Ad esempio ad una richiesta di aiuto per la sua bambina la neomamma Monica si rivolgerà ad una sconvolta Dora che -inconsapevolmente- toccherà con mano la risposta che le giungerà solo anni dopo; così come l’agognata verità che Lucio insegue a tutti i costi arriverà effettivamente solo tramite quel confronto che lui -inconsciamente- rifiutava; ecc… insomma, il filo conduttore per tutte queste storie e questi personaggi -come dicevo qualche riga più su- è la paura: paura di affrontare persone e situazioni; paura di divenire come i propri genitori; paura di essere totalmente differenti dai propri genitori; paura di essere ciò che si è, lasciandosi quindi plasmare totalmente solo per inseguire un quieto vivere che non è né amore e né tranquillità, ma solo un negare se stessi; paura di accettare che la realtà alle volte è esattamente per come accade e per come viene narrata, senza che essa nascondi necessariamente qualcosa; paura di vivere e paura di morire; paura di non essere sinceri; paura nell’accettare una malattia. E tutte queste paure appunto, non fanno che tracciare il profilo di adulti frustrati, tristi, insoddisfatti, affermati nel lavoro eppure incapaci di amare sino in fondo e di comunicarlo.

La paura di essere altro da sé non fa altro che ingigantire la non accettazione che si è in continua evoluzione e mutamento e che come ogni cosa -ad un certo punto- abbiamo bisogno di “accettare il lutto” (letterale o no che sia), il distacco, la presenza dell’assenza, il negarsi, l’ineluttabilità se ciò può essere utile per la nostra trasformazione ed affermazione del nostro io che lotta per sopravvivere prima e vivere poi.

Insomma, come già detto, era/è un fil da vedere in sala e sul piccolo schermo mi è sembrato addirittura lunghissimo: ma non di quelli pesanti che non vedi l’ora che finiscano, no; la percezione è stata lunghissima perché gli eventi sovrastano ogni cosa e lo spettatore ne rimane totalmente invischiato e non riesce a districarsene (alla fine l’opera dura solo 119 minuti, quindi non spaventatevi!).

Bellissima e quasi sul finale la scena di stampo felliniano che così opposta e contraria a tutte le precedenti che sino a quel momento hanno composto il film, ne va a definire il giusto climax della narrazione (e qui confesso che la lacrima è scesa!).

È questa un’opera eccellente che meritava di sicuro dei riconoscimenti e non solo delle candidature, ma il riconoscimento più grande a mio avviso è che visionando Tre Piani alla fine se ne esce migliori e trasformati (dovremmo un po’ tutti “uscire dal palazzo e buttarci nella pista da ballo della vita“, quantomeno provarci), perciò è ancora possibile affermare che il Cinema non è solo puramente commerciale, ma conserva la sua anima d’impegno civile per poter analizzare la realtà sociale e denunciarne specifiche problematiche.

3 Grazie per il tuo Tempo ed il tuo Amore