Romanzo d’esordio del cantautore Ermal Meta

Seguo Ermal Meta dal 2016, quando in quella ricchissima edizione di Sanremo Giovani molti artisti talentuosi ebbero fortuna e tra questi anche e soprattutto lui.

Chi lo segue da svariati anni sa che Meta non è un semplice cantautore, ma al di là del suo aspetto fisico con tratti un po’ severi, dietro quel suo sguardo profondo scuro e che osserva tutto nei minimi particolari senza farsi sfuggire nulla, si cela un cuore grande e disponibile, una tenera fragilità percepibile nel controluce della sua anima. Insomma, Meta con le parole ci sa fare e non solo con le canzoni: durante un’intervista radiofonica di un po’ di tempo fa lesse una storia -un racconto breve- estrapolato dagli appunti nel suo cellulare. Il protagonista era un uomo maturo che non era mai andato al mare, non aveva mai fatto il bagno nell’acqua salata. Parole toccanti, struggenti, che rimasero ben impresse nella mente e che seppero ben andare in profondità, andare oltre, con un tocco lieve.

In molti gli chiedemmo di scrivere un libro. Ermal non appartiene a quei narratori moderni che fanno dei giri immensi di parole ma poi non dicono nulla, no… lui non è così. Le sue parole sono scelte con sapienza: sono puntuali, dirette, crude, che non risparmiano a volte dolori. Ma per poter parlare del suo romanzo d’esordio “Domani e per sempre” edito da La Nave di Teseo devo, necessariamente, parlare un po’ di mio nonno.

Nonno Domenico era una persona simpatica: cicciottello, con i baffi, portava sempre un basco obliquo sul capo e la stessa giacca per tutte le stagioni. Non amava parlare di sé, raramente raccontava qualcosa di sua spontanea iniziativa riguardo il suo passato, in compenso faceva una sacco di battute sarcastiche sul quotidiano (forse questa cosa l’ho ereditata da lui chissà…). Un giorno, entrai nella sua camera da letto e sul comò (un vecchio mobile a 3 cassettoni con ripiano in marmo su cui trovavano posto uno specchio a parete, la foto del suo matrimonio, un centrino rettangolare e una pietra di vetro verde), scorgo anche il carapace integro e color sabbia di una piccola tartaruga. La cosa mi incuriosì e chiesi spiegazione. Mi rispose con tre semplici frasi:

Nonno ha fatto la campagna d’Albania. Ero prigioniero e per campare mangiavamo tartarughe, sanno come il pollo. Gli albanesi parlano la lingua del diavolo

Non sapevo fosse stato in guerra. Ero troppo piccola per fare domande, per cercare di capire e nonno non ha mai introdotto questo discorso. Non so cosa abbia visto laggiù o cosa abbia subito. So però che tornò in Italia il 15 di agosto: non amava le “cose della chiesa“, ma quello era l’unico giorno dell’anno in cui vi metteva piede, andava a fare un saluto e un ringraziamento alla Madonna. A me resta il rammarico per non aver chiesto, per non aver ascoltato.

Riguardo alla lingua albanese: non credo sia la lingua del diavolo come diceva nonno o meglio, forse le parole che ha ascoltato lui erano malvage, io ne ho appreso il lato più “goliardico”. Il mio paese si trova nella provincia di Cosenza ai piedi del Parco del Pollino ed è interamente circondato da paesi di origine Arbëreshë e quando a scuola in una classe di 18 ragazzi in 14 erano albanesi di 3a o 4a generazione, eravamo “noi italiani” a doverci adeguare. Non so parlare l’albanese, ma so dire le parolacce, frasi semplici per la comunicazione, dire ti amo… È una lingua molto sonora, veloce da pronunciare, dai suoni unici, con una musicalità intrinseca difficile da trovare altrove. Quindi per me non c’è differenza fra italiani e albanesi (così come non dovrebbe esserci differenza fra nessun essere vivente) e l’idea di confine geografico o l’ aiutarli a casa loro mi fa molto sorridere dato che -da che mondo è mondo- l’uomo si è sempre spostato. Insomma, le cose andrebbero meglio se si applicasse nel profondo e si estendesse il detto

Una faccia, una razza.

Il romanzo di Ermal Meta è suddiviso in 6 parti più epilogo, per un totale di 540 pagine. Le vicende narrate prendono il via nell’inverno del 1943 e terminano nella primavera del 1990. Si percorrono 47 anni sia della storia del protagonista –Kajan Dervishi– sia della Storia che abbiamo studiato nei libri di scuola. Ma in queste narrazioni c’è sempre un tassello mancante, un qualcosa ancora di celato che necessita di essere scoperto e gridato. Di cosa sia stata la guerra in Albania non si sa nulla, e ancora di meno si sa cosa sia stata la dittatura di partito. In queste pagine Ermal ci fa comprendere gli orrori, le atrocità, la disumanizzazione che l’uomo ha subito ma ha anche inferto, in un malato e perverso voler assecondare degli ideali e delle dottrine considerate “beni superiori” che però sono stati condotti all’eccesso -in negativo- rivelandosi se non peggiori, parimenti alla stregua delle mostruosità che le hanno precedute.

Il protagonista in questi 47 anni ha vissuto molte vite, troppe vite per una persona soltanto. Eppure ogni volta ha trovato la forza e la motivazione per andare avanti, per resistere, per combattere, per rinascere, per tornare a camminare alla luce del sole e non farsi sopraffare dalle tenebre e dalla loro nebbia spessa e fitta. Le parole utilizzate da Ermal sono così schiette e dirette che il lettore non solo vede staccarsi dalle pagine le immagini che scorrono veloci sotto gli occhi, ma è possibile udirne i suoni e avvertirne gli odori degli ambienti e delle cose che il protagonista vive e attraversa. Ma questo non è solo un romanzo denso di dolore: con Kajan si ride, con Kajan ci si innamora, con Kajan si piange di una gioia non quantificabile. Man mano che ci si addentra sempre di più nella lettura, ci si rende conto che questa è una storia che deve essere narrata, perché certi orrori non accadano mai più. Questo romanzo non è narrativa fine a se stessa, ma è una sceneggiatura già ben delineata e ben fatta tanto per un lungometraggio tanto per un progetto di serie (per questo speriamo e gli auguriamo possa anche -quanto prima- approdare sugli schermi e ricevere le giuste attenzioni che merita, non solo in Italia e Albania, ma anche oltre).

Ad Ermal Meta va il nostro ringraziamento per averci tenuto incollati alle pagine, conducendoci nel vortice impetuoso degli eventi dove ad ogni possibile finale, seguivano repentinamente nuovi incidenti scatenanti e nuovi punti di svolta. Un grazie va anche a La Nave di Teseo perché scegliere di editare determinate storie non è mai semplice. A noi lettori il compito di capire, saper discernere, raccontare e diffondere, sempre avvolti dalla Musica e dalla speranza luminosa che può affacciarsi e sorprenderci ovunque.

6 Grazie per il tuo Tempo ed il tuo Amore