Quando le luci e le ombre ci definiscono.

Ero piccola, mio fratello più piccolo di me (non andava neanche a scuola ancora) e gironzolava in triciclo per casa canticchiando maldestramente una frase che più o meno suonava:

Ina ina, tono i eee della catina…

lo guardavamo perplessi e divertiti cercando di decifrare quel motivetto sentito chissà dove e chissà quando. Di anni ne devono passare ancora parecchi finché, giunta all’università, spinta dal mio amore per l’attore Michele Riondino una sera decido di andare al cinema per vedere il film Dieci Inverni di cui era protagonista assieme alla bravissima Isabella Ragonese e lì venni folgorata colta dal lampo (!): in una scena del film compare un certo Vinicio Capossela di cui non sapevo assolutamente niente. Nella scena si trova al piano, suona e canta Parla Piano…

Sono completamente ipnotizzata da questa figura e vengo presa da una frenesia maniacale: chi è quell’uomo? Qual è il suo percorso artistico? Ha fatto altre canzoni? “Da dove viene? A chi appartiene? Cosa va cercando?“…

Le mie ricerche mi portano a scoprire non solo un poliedrico e complesso Artista, ma scopro un mondo intero, un mondo che in realtà era sempre stato presente dato che quel motivetto bislacco che canticchiava mio fratello altro non era che la sua Che cossè l’amor

Ma Vinicio Capossela non è solo musica, canzoni, sperimentazioni sonore, ricerca, ma è anche parole scritte, pagine, viaggi, partenze e ritorni, esplorazione del nuovo e recupero della memoria. Capossela è una sorta di novello Ulisse che assetato dell’amore per la conoscenza non esita a spingersi oltre i limiti che forse nemmeno lui stesso aveva mai pensato di valicare. Ciò che traspare di Lui -nelle opere che sino ad ora ho letto (Non si muore tutte le mattine, Il paese dei Coppoloni e appunto Eclissica)- è la figura di un uomo sì eclettico, ingegnoso, che sa godersi vita e compagnie, ancora in grado di meravigliarsi (cosa affatto scontata visto i tempi che stiamo patendo), che non teme il viaggio ma anzi si lascia trasportare da esso e dal suo sciabordio, qualsiasi direzione il fato o chi per lui decida di intraprendere, eppure… eppure (forse sbaglio o forse no, chissà) Vinicio mi appare innanzi agli occhi come un uomo estremamente fragile, di una fragilità complessa che seduce; un uomo che ama, ama tantissimo e perdutamente e alle volte forse esageratamente (può l’Amore non essere esagerato?), ma chissà, il mettersi a nudo e lo spogliarsi di tutto per apparire differente ed uguale a se stesso alle volte può essere ricoperto con un solo ed unico vestito e in questo caso non può esserci stoffa diversa che possa sostituirne il tessuto leggero con stampa di ciliegie. Insomma, è difficile non voler bene a Capossela, con tutte le sue parti in luce, ma ancor di più con i suoi lati in ombra.

Leggendo Eclissica, come per le altre opere soprattutto cartacee, mi imbatto in commenti e considerazioni che mi riportano al solito leitmotiv sul suo modo di scrivere: “non lo capisco, faccio fatica a leggerlo, è troppo complicato”. Di recente, prendendo parte ad una mostra, ho sentito dire che “se un’opera non la si capisce è perché non si è in linea e in sintonia con l’artista in quel preciso momento“. Certo poi i gusti personali e tante altre caratteristiche incidono notevolmente sull’apprezzamento e sulla comprensione di un’opera, ma nel caso di Capossela secondo me va fatta un’osservazione ben precisa. Capossela non è solo cantante quando canta, così come non è solo musicista quando suona e ancora non è solo narratore quando narra. Quello che voglio dire è che per comprendere passo passo le parole di Vinicio, bisogna ed è necessario tener ben presenti tutte le sue sfaccettature artistiche e unirle.

Le sue opere io le considero opere totali (credo che questa sia la “chiave” giusta per leggerlo e comprenderlo): i piani narrativi più disparati si sovrappongono al punto tale che la narrazione scritta necessita una lettura ad alta voce per poterne cogliere l’oralità del racconto, la musicalità della scelta delle parole e che la costruzione delle frasi portano con sé, la teatralità del gesto.. dell’accaduto.. del sogno, la candida poesia che assumono determinate descrizioni. Insomma, leggere Capossela è come immergersi ogni volta nel cortometraggio “Destino” di Salvator Dalì e Walt Disney: parole, narrazioni e significati sono uguali a se stessi eppure cangianti, assumendo sempre nuove sfumature, nuovi punti di vista, nuove forme.

Poi una cosa per la quale impazzisco letteralmente di gioia è la quantità di termini nuovi che di volta in volta scopro e apprendo: le mie copie dei libri di Capossela sono ricchi di note a margine, appunti a matita, sottolineature… con questa ricerca linguistica è facile comprendere come davvero nulla sia lasciato al caso nelle sue narrazioni, ogni cosa è esattamente dove deve stare ed ogni termine usato, ogni segno scelto non fanno altro che arricchire il tutto e allora non si sta solo leggendo un libro, ma si sta ascoltando l’Autore, si sta cantando con lui, si sta guardando attraverso i suoi occhi. In queste 608 pagine Capossela ci permette, forse anche con un po’ di imbarazzo, di vivere la sua vita: con i suoi trasporti, le sue emozioni, i suoi viaggi, i suoi tormenti, i suoi batticuore, le sue risate, i suoi posti soleggiati, i suoi silenzi, le sue follie, i suoi posti all’ombra, la sua baldoria, la sua Grazia…

Mi dissero una volta che me n'ero andato
"Ma quando, però quando se sempre sto tornando a casa e quartieri e città
e mai nessuno di voi è il mio quartiere?"
Barrio... il mio barrio
così lo chiamerò il posto dove mi sentirò uno di voi
e le vostre voci lontane saranno musica per il mio cuore
Dove, amici miei, potrete bussare all'ora che volete:
ci apriranno i bar quando sono già chiusi
e non saremo come numeri
sui citofoni dimenticati come cani di passaggio e senza nome
Di modo che se fossi nel mio barrio
avrei spalle su cui appoggiar le mani
e orecchie a cui confessarmi.
E casa
e Luna
e Stelle
che dall'alto sull'angolo del tetto dei miei vecchi mi direbbero:
"Fermati qua, fermati qua...

[…] A lampi ci sorprende la vita, che va poi a interrarsi nei suoi abissi. Nei pantani dei piccoli pensieri micragnosi, nelle sue miserie senza redenzione, nel suo immemore consumo del tempo orizzontale. A lampi si impenna il tempo in verticale del racconto, della visione e del mito, come si impennano le balene a Sud, nei pressi dei poli, non viste, come nel fragore de la mer “quando fanno tremare i ghiacci nell’amplesso dei loro gemiti, nei loro abbracci di giganteschi corpi monchi, e poi ricadono e la terra intera trema per il tonfo immenso” […]

3 Grazie per il tuo Tempo ed il tuo Amore