(articolo del 28/03/2017)

Un nuovo capitolo narrativo nella sperimentazione cinematografica di Ferzan Ozpetek. Tratto liberamente dall’omonimo romanzo edito da Mondadori, il resoconto dettagliato dopo l’intima visione del film in una sala semivuota

Mi era capitato altre volte di visionare dei film in una sala semivuota, ma di essere presenti solamente in otto su una capienza di un centinaio di persone, sinceramente mai. Sarà stato l’effetto “Trainspotting 2” di sicuro, dato che nelle sale di fianco vi era pienone e le persone continuavano ad entrare anche se il film fosse già iniziato.

E così, in un cinema “tutto mio” (mi verrebbe da dire) e sgombro meravigliosamente da quei disturbatori seriali e sgranocchianti patatine e quant’altro, mi è sembrato che il «dialogo opera-spettatore» fosse di un’intimità insperata, quasi a voler narrare un segreto sottovoce. Ma di “sottovoce”, Rosso Istanbul, è avvolto solo per metà. Eh sì, perché questo non è il solito Ferzan Ozpetek che con gli anni abbiamo scoperto ed imparato ad amare, bensì è un insolito Ozpetek, che di certo va a spiazzare e a cogliere di sorpresa un po’ tutti. 

Il film è “liberamente tratto” dall’omonimo romanzo – edito da Mondadori – ma del romanzo, dei personaggi descritti in esso e di quel turbinio di sentimenti e ritmo che ci avevano fatto stare incollati a quelle pagine inducendoci a divorarle in un sol fiato, vi è – in apparenza e ad un primo sguardo – ben poco. Eppure questa non è una critica negativa, anzi: il film, per come è stato concepito e realizzato, è molto complesso e riesce a comunicare il meglio di sé solo dopo averlo assimilato e solo dopo essersi ben sedimentato in mente, cuore, occhi e orecchie.

Insomma, il film “arriva” (come dicono gli addetti ai lavori) e fa il suo effetto, ma in un secondo momento, un po’ come una medicina a rilascio graduale. E tutto ciò accade perché i vari linguaggi adoperati (immaginiparolemimicasuonisilenzi e rumori) sono volutamente utilizzati in contemporanea come più strati sovrapposti uno sull’altro, tanto da farmi tornare in mente il capitolo “Tutto in un punto” tratto da “Tutte le Cosmicomiche” di Italo Calvino e allora, serve un po’ di pazienza ed esercizio per districare l’intera matassa e poterla rendere più lineare e comprensibile.

È vero, del personaggio femminile del romanzo e delle sue vicissitudini non vi è traccia (confidiamo in un successivo lungometraggio), ma per potersi rinnovare in toto, Ferzan, non fa altro che seguire la regola cardine e non scritta per chi si occupa di sceneggiatura: «Iniziate a parlare di ciò che conoscete meglio e bene» e cosa si conosce talmente bene da modificarne anche i dettagli, se non la propria vita?

Credo sia stato Andrea Camilleri (ma non ne sono sicura) ad aver detto, riguardo uno dei suoi libri, che

«questa storia è totalmente vera, soprattutto nelle sue parti inventate»

e quindi – seguendo questo concetto – è vera Neval, vero è Yusuf, così come vera è Zia Betul, veri sono Orhan e Deniz (due facce di una stessa medaglia; meraviglioso Halit Ergenç nei panni di Orhan), veri sono i dolori, veri i controsensi e tutto ciò che ci sfugge, vera è Istanbul (forse vera e sola protagonista del lungometraggio).

In alcune recensioni ho letto che una pecca di questa opera sia la mancanza della città e del mondo esterno. Non sono affatto d’accordo: ogni persona è un universo a sé – affascinante e contraddittorio – e la città è onnipresente, ve ne è addirittura così tanta che stordisce lo spettatore: gli esterni – mostrati quasi totalmente in maniera “grezza” attraverso la colonna sonora* del film – invadono gli interni e si fondono con questi ultimi, senza più riuscire a districarli.

Istanbul sembra quindi invadente, tormentata, sofferente, coraggiosa, intrisa di apparenze, saccente, insopportabile, «una puttana che accoglie tutti», troppo nuova ed al contempo ben aggrappata alle sue tradizioni, alle sue omissioni, ai suoi sospetti; calda come l’abbraccio di una madre; crudele come l’amore non ricambiato; acida come la presunzione di una governante; approfittatrice come un fratello scialacquatore; preoccupata come una sorella in lacrime; accusatrice come un amore rifiutato; urlante e disperata come chi vorrebbe solo una risposta; caotica come il mondo intero; sognante come bambini capaci ancora di meravigliarsi.

Istanbul è ancora rossa come una casa che forse non c’è più; come un tramonto sul Bosforo; come uno smalto a simboleggiare una nuova giovinezza; come il tè presente ad ogni occasione, a mo’ di rituale “risolvi-tutto”; Istanbul è croccante come un panino mangiato su di una panchina, come una carota in un aperitivo, come un simit sgranocchiato sul traghetto. Istanbul è tutto questo e molto altro.

Nel titolo ho parlato di seconda opera prima, il che sembrerebbe impossibile dato che si definisce opera prima appunto l’opera realizzata per prima da un autore, ma ciò che voglio dire è: da Il bagno turco (1997) ad Allacciate le cinture (2014) abbiamo assistito – secondo me – ad un ciclo di dieci narrazioni ora conclusesi e con Rosso Istanbul si da il via ad un nuovo capitolo narrativo nel quale spingersi più in là dal punto di vista sperimentale (parallelo suoni-aderenza al reale ad esempio), nel quale però rielaborare i cardini essenziali di quella che è stata sino ad ora la filmografia ozpetekiana: importanza della memoria; elaborazione di un dolore; “tocco alla Ozpetek” (ovvero gestione ed utilizzo della macchina da presa come se il tutto venisse “accarezzato” senza invadere con morboso voyeurismo) e da qui riscriversi e scoprirsi nuovi.

Rosso Istanbul appare ancora come “opera prima” perché, dell’opera prima, ha le sembianze: mistero da scoprire; completezza e sperimentazione a più livelli sui vari linguaggi narrativi utilizzati; alcuni personaggi sono volutamente lasciati irrisolti ed infine, “rumore e caos” che si acquietano nel momento in cui si prende consapevolezza di sé.

Prendo in prestito i versi di una poesia e di una canzone, rielaborandoli, questo film lo si potrebbe riassumere così:

“Le tue parole – soprattutto quelle non dette – erano uomini / che bel rumore fanno le cose quando iniziano”.

*per «colonna sonora» – termine usato quasi sempre in maniera impropria – si intendono tutti quei rumori, suoni, caos, parlato, ecc.. che vanno a comporre la traccia audio; le canzoni d’apertura e chiusura invece, vanno ascritte alla colonna musica

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