Quando arriva in sala un film di Mario Martone o è possibile visionarlo in streaming, sono sempre molto combattuta e questo accade perché di Martone apprezzo moltissimo la puntigliosità nel ricreare ad esempio un determinato periodo storico, ma nel complesso -ahimè mi duole dirlo- esco dalla visione dell’opera sempre insoddisfatta e a tratti delusa.

Mi è successo con Il Giovane Favoloso, film su Giacomo Leopardi: di cui ho apprezzato anche qui la maniacale ricostruzione (si nota l’amore di Martone per la storia e lo studio che essa necessita), ma anche in quel caso, alla fine mi è sembrato mancante di qualcosa e addirittura tronco, lo rividi anche una seconda volta (con il beneficio del dubbio, magari ero io a non averlo visto con la giusta attenzione), ma la sostanza non cambiò, anzi mi sembrò addirittura peggiorato.

Lo scorso anno il regista è stato in concorso a Venezia78 con il film Qui rido io appunto, che vorrebbe essere un biopic su Eduardo Scarpetta, padre dei fratelli Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. Da qui parte la mia curiosità perché amo il Teatro e i copioni eduardiani non si battono, ma soprattutto (e questo per me rimane un mistero): perché RaiCinema decide di produrre due lavori su Scarpetta/De Filippo -impossibile scinderli- con alcune scene direi identiche, nello stesso anno? Rientra in quel processo di autoclonazione di cui parlavo qui? E si perché, sebbene i registi Sergio Rubini e Mario Martone si focalizzino su personaggi differenti (per il primo i protagonisti sono appunto i fratelli De Filippo, mentre per il secondo il protagonista dovrebbe essere Scarpetta) e per quanto le due opere per intenti e idee non sono minimamente accostabili e paragonabili, confrontarli però viene spontaneo e ora vi spiego perché.

Entrambe le opere sono assolutamente impeccabili sia dal punto di vista della colonna musica (Piovani per Rubini e brani di repertorio per Martone), per i costumi azzeccatissimi (Maurizio Millenotti per Rubini e Ursula Patzak per Martone) e perfetta appare la scenografia (Paola Comencini per Rubini, Muselli-Rescigno per Martone).

Detto ciò, proprio perché impossibile scindere i figli dal padre e viceversa, per causa di forza maggiore in alcuni punti le opere sembrano sovrapporsi: si veda ad esempio il far ritornare in casa il piccolo Peppino affidato ad una balia; i pranzi regali consegnati a domicilio; il piccolo Peppino che una notte spiando dalla finestra la madre, scoprirà che “lo zio” è sicuramente qualcosa di più; per non parlare poi della battura “Siete i De Filippo e non vi dovete dividere mai” pronunciata dalla madre nel film di Rubini e “noi siamo i fratelli De Filippo e non ci dobbiamo mai dividere” detta dal piccolo Eduardo. Insomma, una volta apprezzate e notate tutte queste cose, noi poveri spettatori, iniziamo però a perderci e a non capire… come se il progetto iniziale fosse unico e poi è stato scisso… non lo sapremo mai.

Mentre Sergio Rubini fa una scelta netta e precisa, focalizzando il tutto sui tre fratelli caratterizzandoli alla perfezione e delineandone benissimo comportamenti, mentalità, azioni, rendendoli uguali soltanto a loro stessi, tutto ciò con l’opera di Mario Martone non avviene. È come se il regista avesse perso di mira il suo obiettivo o con la smania di narrare tutto, in quel tutto è naufragato (almeno questa è la sensazione che ne ho avuto). Il film dura la bellezza di 133minuti e dal minuto 32:44 in poi -sino alla fine dell’opera!- si parlerà soltanto dello spettacolo La figlia di Iorio, tragedia in tre atti del 1903, di Gabriele D’Annunzio per la quale i due autori finirono in tribunale: D’Annunzio accusa Scarpetta di plagio, mentre Scarpetta chiedendo e non ottenendo un’autorizzazione dal D’annunzio per poter parodiare il suo testo, ecco che finisce per portare in scena un’opera “semplicemente brutta” (come afferma il più illustre filosofo del tempo, nonché critico letterario, scrittore e politico Benedetto Croce).

Al di là della vicenda giudiziaria, il tutto appare piatto e a tratti anche noioso. I vari personaggi -sia maschili che femminili- sembrano tutti uguali. Il carattere odioso e impossibile di Scarpetta (che bene emerge nella realizzazione di Rubini) in Martone viene mostrato solo attraverso il gelo della Compagnia nei suoi confronti, ma senza spiegare il perché e l’unica cosa che viene sottolineata è la sua megalomania attraverso delle foto in gigantografia e attraverso la frase “io sono Scarpetta” che viene ripetuta di continuo, nel caso in cui l’avessimo dimenticato.

Quello che io mi chiedo è: non era forse meglio fare delle scelte? Se il fulcro di tutto doveva essere questa diatriba Scarpetta-D’annunzio (ah, sottolineiamo poi che il D’annunzio lo si mostra in una sola ed unica scena in tutto il film!) con tanto di processo, perché si è illuso lo spettatore sull’idea che il film fosse un biografico o biopic come si dice ora? Perché francamente quella risata finale -che va a riprendere sia il titolo del film sia il nome che Scarpetta aveva dato alla sua villa estiva- non sa tanto di vittoria, ma di beffa: non abbiamo visto il suo carattere e i suoi modi impossibili (se non per il “piccolissimo” particolare che fosse un grandissimo puttaniere), non abbiamo assistito alla sua furbizia o al suo estro creativo, ma anzi ci è apparso un personaggio piatto, non attraente, più simile nelle movenze ad un Charlie Chaplin che ad una rilettura di Pulcinella e soprattutto non ne esce affatto bene dal colloquio con Croce, che lo dipinge come un guitto che si atteggia da nobile e che non è nemmeno furbo e forse ha fatto il passo più lungo della gamba.

Ed ecco che ancora una volta non c’è attrazione fra me e l’opera di Martone e mi dispiace perché le qualità di partenza c’erano tutte, ma ancora una volta -da spettatore- non mi sono sentita coinvolta e non sono entrata in empatia con le vicende da lui mostrate, cosa che invece mi è riuscita seguendo il taglio e le scelte narrative che Sergio Rubini ha voluto dare al suo I fratelli De Filippo.

2 Grazie per il tuo Tempo ed il tuo Amore