Gesù è morto per i peccati degli altri: un’opera prima documentaristica che racconta, grazie alla sapiente regia di Maria Arena, sette storie di prostituzione tra omosessualità e religione.

“Ma como mai chiste bottane poi crirono ‘u Signuri?” – Franchina

Le opere prime sono sempre sorprendenti, da qualsiasi punto di vista le si guardi. L’opera prima documentaristica forse lo è ancora di più. Per lo meno questo è il caso di Gesù è morto per i peccati degli altri: documentario, della durata di 90 minuti, per la regia di Maria Arena, che ne ha curato anche la sceneggiatura insieme a Josella Porto. Entrambe, poi, con l’Invisibile Film e con il patrimonio e il contributo dell’Accademia di Belle Arti di Catania, si sono fatte carico della produzione dell’opera.
 
Le storie che si alternano lungo tutta la durata della pellicola sono una vera e propria scoperta, così come è stato frutto di scoperta l’iniziale idea che poco alla volta si faceva largo e andava concretizzandosi nella mente della regista.
 
Il tutto è ambientato nel quartiere di San Berillo di Catania, dove l’Arena era sulle tracce della scrittrice, nonché attrice italiana di cinema e teatro, Goliarda Sapienza. Come la regista ha raccontato in un’intervista, della scrittrice trovò poco o niente, ma visitando il quartiere si rese conto che dietro le caratteristiche di “tragica teatralità” che San Berillo si porta dietro vi era un’umanità celata tutta da raccontare e far emergere.
 
Di certo la Sicilia che si va a narrare non è la Sicilia che lo spettatore è abituato a vedere; non è un sud da cartolina quello che ci appare: il quartiere è posto in apertura di documentario come un sipario che poco alla volta viene innalzato, mostrandosi in tutta la sua deflagrazione e decadenza. Come un personaggio silente e sventrato, il quartiere con le sue stradine strette, le abitazioni minuscole, le pareti e i muri dalle tonalità grigie come la cenere è un ulteriore protagonista sempre presente per tutta la durata del film.
 
Dietro quelle pareti con le loro porte, ecco che uno dietro l’altro iniziano a mostrarsi gli attori principali delle vicende: FranchinaMeriMarcellaWonderSantoAlessia e Totino, alle quali si aggiungono le partecipazioni di Salvatore Turi Zinna e Salvo Grillo. Loro sono donne, sono trans, che per scelta e per necessità hanno iniziato a prostituirsi, finché la prostituzione non è diventata un lavoro e anche l’unica, personale, fonte di sostentamento. Come hanno dichiarato loro stesse, all’inizio vi era della diffidenza verso la regista, la quale però non si è data per vinta e con testardaggine è riuscita a convincerle a raccontarsi.
 
Le storie allora prendono a srotolarsi una dietro l’altra ed emergono i sentimenti contrastanti di chi un tempo fu vergogna” per la famiglia, ma che vergogna invece non è per il figlio che l’accetta; i racconti di chi ha iniziato per gioco e poi ha scoperto la sua unicità; di chi ne ha passate tante e sfoga l’intensità del suo animo dipingendo; di chi si vede sfrattata da quei vicoli di pietra ed è costretta a “trasferirsi” lungo le superstrade; o, ancora, di chi un tempo era un aiuto chef e, una volta licenziato, non è più riuscito a trovare lavoro perché trans e ha visto nella prostituzione l’unico modo per sopravvivere; di chi, infine, conferma il proprio piacere nell’andare con gli uomini e il piacere per un facile guadagno.
 
Sono verità che vengono snocciolate poco alla volta: lo spettatore, totalmente incapace di reagire nell’immediato perché del tutto inerme di fronte quell’autoironia disarmante che trasuda verità quotidiane, ha comunque tutto il tempo per entrare in empatia con i protagonisti e i fatti che li riguardano, ad esempio l’interrogarsi sull’efficacia della bellezza o il festeggiare un compleanno.
 
Le loro verità si svelano di pari passo con la verità della fede, si caricano di estrema e sincera devozione, prendono vita con la festa della Madonna e, infine, con la Pasqua. E loro, tutte loro, come Maddalene dei nostri giorni vivono una via crucis in cui le stazioni sembrano non avere fine e la croce – che hanno scelto o sono state indotte a scegliere – seppur pesantissima, non viene rinnegata. Non rimpiangono nulla, non rinnegano nulla: farlo significherebbe rimpiangere e rinnegare sé stessi.
 
Le musiche struggenti completano l’ottima cornice realizzata anche dal punto di vista tecnico. Le protagoniste, grazie alla sapiente regia di Maria Arena, sono quasi sempre inquadrate, anziché in maniera centrale, sui margini laterali del quadro visivo: un’acuta e riuscitissima metafora del loro sentirsi persone ai margini della vita e della società.
 
Davvero molto intenso è lo sguardo che Maria Arena e Josella Porto, già sceneggiatrice per l’opera prima Il Sud è Niente del regista Fabio Mollo di cui avevamo apprezzato sia il linguaggio tecnico-registico che quello narrativo, sono riuscite a trasporre sullo schermo. Trovano quindi spazio tutta quella delicatezza e tutto quel rispetto che questa gente merita.
 
Per questo non deve stupire e sorprendere la loro fede, perché è naturale per ognuno ricercare qualcosa e/o qualcuno in cui credere, qualcuno da amare e dal quale sentirsi amati, anche in un contesto che «quanto più è degradato, quanto più è affascinante», come dice una delle protagoniste. E allora sì, ha ragione la regista quando afferma che «Gesù non è morto, ma vive nelle loro vite».
 
Gesù è morto per i peccati degli altri è un documentario da vedere non soltanto per conoscere luoghi e persone lontani dalle nostre quotidianità, ma anche per usufruire di altre angolazioni di veduta, per aprire la mente, per dare la giusta attenzione a chi non ne possiede – se non in senso negativo –  e il giusto ascolto a chi viene limitato nelle sue libertà. In questo film l’unica “presunzione” che si palesa è quella di voler essere riconosciuti come persone uguali e uniche, proprio come tutte quelle che godono di diritti e, perciò, vengono tutelate.

 

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