Oggi riprendo un articolo scritto un po’ di tempo fa e vi parlo di Her/Lei (uno dei miei film preferiti in assoluto), scritto e diretto da Spike Jonze ed interpretato da Joaquin Phoenix e Scarlett Johansson, rispettivamente nei panni dello scrittore Theodore e del sistema operativo SamanthaLa pellicola (vietata ai minori di 18 anni negli USA) -candidata a ben cinque premi Oscar- si è aggiudicata la statuetta placcata in oro per la miglior sceneggiatura originale.

E proprio la sceneggiatura così essenziale e con dialoghi asciutti e diretti, fa si che lo spettatore possa sentirsi totalmente coinvolto dalla storia. Ma il testo compie anche un’altra magia: gli “addetti ai lavori” sanno quanto sia complicato far interagire un personaggio con la tecnologia in un film, perché si rischia sempre o di appesantire il tutto chiudendolo poi in un vicolo cieco o si ripiega su dei cliché, così scontati e prevedibili che inducono alla perdita di attrattiva. In questo film Jonze, non solo fa un uso intelligente e imprevedibile della tecnologia, ma ne ricava addirittura un ruolo femminile di tutto rispetto.

E passi il gusto un po’ retro dei costumi, che stranamente sembrano cozzare con questo futuro imminente e super-tecnologico (anche se alla fine del film, ci si renderà conto che per complicare le esistenze bastano i sentimenti e non c’è quindi bisogno di complicarci anche il vestiario. Perciò, perdoniamo il costumista per la scelta di pantaloni maschili, dalla vita un po’ sproporzionata).

La creazione di un personaggio come Samantha, abbatte -se vogliamo- un elemento fondamentale del Cinema: il Mostrare. Noi non vediamo Samantha (anche se la identifichiamo con l’auricolare e lo schermetto che Theodore ha sempre con se), ma semplicemente la ascoltiamo e nonostante questa “mancanza di corpo”, lo spettatore crede in questo personaggio.

E così questo lavoro cinematografico intrapreso da Jonze è quasi più vicino ad un lavoro teatrale, ai cosiddetti “falsi monologhi”, dove a reggere la scena è un unico personaggio (in questo caso il Theodore interpretato da Phoenix), anche se le voci da ascoltare sono più di una. Oltre a questa comunanza Cinema-Teatro, Her va a “scardinare” altri elementi fondamentali del linguaggio cinematografico: ad esempio, il campo-controcampo nei dialoghi e di conseguenza, il montaggio stesso.

Non potendo usufruire della reazione mimica e fisica di Samantha, ecco che -come avviene al minuto 1:44:50- il controcampo viene effettuato mettendo in evidenza l’orecchio destro di Theodore, mentre tutto il resto è sfumato e non nitido; o ancora nel momento in cui Samantha gli comunica che lo lascerà, ecco che dal faccione di Phoenix sdraiato sul letto si passa ad un cono di luce sulla coperta, attraversato da impalpabile pulviscolo. Si vanno ad unire quindi immagini fra loro non direttamente collegate che -se non in soggettiva, ossia mediante lo sguardo di Theodore con il quale lo spettatore “vede”- attraverso le battute, le immagini si avvalorano di nuovi significati.

Bellissima inoltre la fotografia, con i suoi cambi di tonalità e intensità: si passa dai cromatismi scuri e un po’ freddi ad inizio e fine film, atti a sottolineare un distacco ed al contempo, una accettazione della “dura realtà”; mentre nel blocco centrale -che incarna quella parte di vita dello scrittore identificabile con “i momenti felici” dove tutto sembra prendere la giusta piega- ecco che appaiono tonalità luminose e calde pronte a coccolare lo spettatore, tanto da rilasciare una sensazione come di non naturale, come di una luce da deserto assolato con tanto di miraggi al seguito.

Ma Her non è solo questo (luci, mondo/vita di Theodore, distacchi e affetti), ma è anche e soprattutto sonorità. Si passa dalla seducente e roca voce di Samantha, alle musiche degli Arcade Fire e di Karen O (perfette a sottolineare ogni singolo momento), ai suoni d’ambienza: le voci dei passanti -in un primo momento- passano in secondo piano per lasciare spazio invece ai suoni e ai rumori della natura, così appaganti, conciliatori e atroci.

Se da un lato con Her vengono abbattuti tutti i confini di cultura, credo, colore, possibilità, finanche corpo nei confronti dell’altro, nonostante il dolore che alcuni legami ci infliggono o ci inducono a provare, questa realizzazione di Spike Jonze è ricca anche di una saggezza profonda. Quando amiamo non dobbiamo limitarci a pensare che “mi piace il modo in cui guardi il mondo” (come viene detto ad un certo punto nel film), ma proprio quando amiamo -il nostro compagno, un amico o semplicemente un parente- nella maniera più pura ed unica, più coinvolgente e più totale, se davvero il nostro sentimento è sincero, allora è quello il momento di essere in grado di lasciar andare l’altro e non perché lo vogliamo allontanare e fargli del male, ma proprio perché lo amiamo smisuratamente, perché lasciarsi è un atto d’amore. E se in un film italiano del 2010 si afferma che “gli amori impossibili non finiscono mai, sono quelli che durano per sempre”, lasciamoci trasportare dal turbinio dei sentimenti nella vita così come nelle sale cinematografiche e se potete -per i film stranieri- concedetevi una visione in lingua originale, ché il doppiaggio non sempre riesce a ricreare le giuste atmosfere e lo struggimento necessario. 

Non resta quindi che augurare buona visione a chi si lascerà avvolgere da quest’ultima creazione di Spike Jonze, meritatamente premiata con l’Oscar.

 

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