Chi segue il mio blog di recensioni sa bene che una cosa che proprio non mi piace fare é raccontare le trame delle storie che leggo o visiono. E questo non per fare la “snob”, ma per incuriosirvi in qualche modo e sperare che di quella storia andiate a ricercare voi stessi e possiate farla propria, anche perché le trame e le sinossi sono sì uniche, ma le interpretazioni ed i punti di vista sono infiniti. Ciascuno di noi con la propria preparazione e la propria sensibilità andrà ad aggiungere o a togliere qualcosa all’opera, rendendo quest’ultima sempre nuova e sempre diversa seppur identica solo a se stessa nella sostanza. Ed è proprio questo il “superpotere” che amo di più delle storie: quello di essere cangianti, camaleontiche eppure fedeli solo a se stesse.

Poi capita che una scrittura che conosci bene, ma proprio bene bene e nella quale ti aspetti di trovare degli elementi specifici, in realtà ti spiazza, ti porta fuori strada, ti sorprende ancora una volta e ti lascia un sorriso sul volto. Tutto questo mi é appena capitato con la lettura de Il cuoco dell’Alcyon di Andrea Camilleri, edito da Sellerio nell’aprile 2019.
 
25 dei miei quasi 33 anni li ho passati leggendo Andrea (letture che con il tempo si sono trasformate anche in collezionismo): ad ogni romanzo storico-civile, ad ogni avventura del Commissario Montalbano si innescava e si innesca tutt’ora una sorta di “sfida all’autore“, un: “il caso lo risolvo prima che me lo sveli!”. Ci ho sempre quasi preso e anche quando “le mie indagini” non erano giuste, ero e sono contenta di aver seguito un mio pensiero ed un mio ragionamento e non l’essermi abbandonata alla strada già tracciata. Per non parlare poi dei racconti di vita teatrale: mare ricco di pesci nel quale poter gettare reti che saranno sempre piene!
 
Non leggevo un libro di Camilleri dal 2018, sebbene avessi acquistato nel 2019 il volume di cui vi parlerò,  non riuscii a leggerlo subito perché impelagata fra altre pagine; poi arrivò la notizia che Andrea ci aveva lasciati e il volume restò lì, in attesa che in qualche modo superassi il lutto: perché quando nella tua vita viene a mancare una figura importante e di riferimento nonostante non ci sia mai stata l’occasione di conoscerla personalmente, é comunque una parte di cuore e di famiglia ad andare via.
 
Ma ritornando sul volume del quale voglio parlarvi, c’è un’altra cosa che non faccio mai quando inizio una lettura: non inizio mai a leggere dalle note dell’autore e meno male, altrimenti con Il cuoco dell’Alcyon mi sarei rovinata la sorpresa. Inizio a leggere e sin da subito ho la sensazione di aver ritrovato un amico col quale non ci si vedeva da tempo: la certezza dell’incipit con l’incubo come presagio e le condizioni meteorologiche a rafforzare il concetto che molto presto ci addentreremo in situazioni «tinte e perigliose» nelle quali bisogna «cataminarsi quatelosamente», inducono sin da subito ad attivare tutti i nostri sensi al massimo livello di allerta.
 
Le pagine scorrono con la consueta agilità, senza nessuna fatica e più si accumulano pensieri e parole, più si fa strada dentro di me una consapevolezza: questa avventura del Commissario Montalbano non diventerà mai un film, anche se sarebbe doveroso farlo per dare il giusto fine ad un percorso intrapreso tanto tempo fa. Secondo me questo romanzo non vedrà mai la sua trasposizione filmica per varie motivazioni: la prima é perché in un lasso di tempo brevissimo sono venute a mancare tutte le figure di riferimento per la realizzazione dell’opera, ossia i tre papà del Commissario (l’autore Andrea Camilleri, il regista Alberto Sironi, lo scenografo Luciano Ricceri); la seconda motivazione riguarda l’aderenza con la realtà: é questa una storia fin troppo reale, soprattutto nei suoi risvolti politici e per questo credo che troverà parecchie resistenze su più fronti perché Camilleri ha sempre detto e continua a dire il suo pensiero senza condizionamenti, senza timore di farsi delle inimicizie… si legga ad esempio il passaggio a pag 14 e che qui riporto fedelmente:
Si dici che in democrazia l’uomo è libbiro. Davvero? E come la mittemo se la machina non gli parti, se il tilefono non gli funziona, se gli ammancano la luci, l’acqua, il gas, se il computer, la tilevisioni, il frigorifiro s’arrefutano di servirlo? Volemo diri meglio che l’uomo è sì libbiro ma di una libbirtà condizionata dipinnenti dalla volontà delle cosi di cui oramà non può cchiù fari a meno.

Terza ed ultima motivazione sul perché questa storia -almeno secondo me- rimarrà a lungo su carta (forse per sempre) è che più si dipana la matassa della narrazione, più si ha la certezza di avere a che fare non con Montalbano, bensì con una «pillicola miricana». E sì, perché in realtà il Commissariato di Vigata, i suoi personaggi da Teatro classico, la Sicilia stessa, l’avvicendarsi delle situazioni tragicomiche, le atmosfere, lo stesso Salvo Montalbano ci arrivano come ovattati quasi irriconoscibili; un «velo malincuniuso assà» avvolge tutto e il tutto ci arriva da lontano, da una distanza dalla quale all’inizio fatichiamo a mettere bene a fuoco ciò che abbiamo davanti e sottomano, quasi in controluce e fioca come «la mimoria gli tornava, ma splapita come pò essiri la luci di un lumino nella notti». E a soccorrere  Montalbano e i lettori stessi questa volta non ci sono l’aria di mari che rapra i purmuna e l’acqua di mari a puliziare l’anima a mò di purificazione per le lordure viste e forse -anche- commesse. 

Il tutto sembra fare da “contorno” ad un qualcosa di più grande; si subisce senza possibilità d’azione e lo stesso Salvo ed i suoi uomini ne sono vittime e ne pagano le conseguenze divenendo pedine di un “gioco” più grande di loro. A poco a poco però inizia a riemergere l’acuta intelligenza, l’arguzia, la sagacia che da sempre caratterizzano le pagine di Andrea. E allora, nonostante le vecchiaglie e la “stanchezza fisiologica”, ecco che li riconosciamo tutti i personaggi che abbiamo imparato ad amare con tutte le loro imperfezioni e ci riconosciamo proprio in quei difetti e dettagli che in realtà sono anche i nostri. La fascetta editoriale a corredo del volume definisce questa storia come «Montalbano più avventuroso che mai»: è vero considerata la sua età (e qui, sul tema dell’età immaginiamo un Salvo incazzato, perché lui è e sarà sempre giovane, nonostante i dati anagrafici)!

Queste 247 pagine non sono adatte per il piccolo schermo, ma necessiterebbero delle grandi produzioni internazionali, dei grandi festival del Cinema dove presentare un Montalbano in stile “007” o “Mission: Impossible” del tutto inedito, rocambolesco e sorprendente e sebbene sia una trama che viene da lontano, ci insegna e ricorda una cosa fondamentale: fidarsi non solo del proprio istinto, ma affidarsi totalmente ai propri amici ché se i parenti non possiamo sceglierceli, la famiglia vera invece si.

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