Ovvero: la quotidianità che ci trasforma.
 
 
Sono ormai decenni che si vocifera che il cinema italiano sia in forte crisi, agonizzante, ma di passare da aspirante cadavere a totalmente defunto -fortunatamente- non ne vuole sapere. Certo è che i prodotti di qualità pregiata sono più unici che rari.
Ci si fissa di proposito e con coscienza sull’idea che «finché un filone o un genere tirano, sfruttiamoli», ed è quanto di più sbagliato possa esserci. Ma fa comodo perché, non avendo idee nuove e fresche (o meglio, non volendo investire sulla figura degli Sceneggiatori, ci si adegua ai passabili registi factotum dovendoci poi accontentare dei risultati), più di tanto non è che si possa fare.
 
E poi, quasi per magia, spunta Gabriele Mainetti: attore, regista, compositore, produttore e fondatore della casa di produzione Goon Films. Quante cose può fare una persona sola? Siamo un po’ titubanti -per via delle ragioni dette prima- ma gli diamo fiducia perché è giovane, da attore non ci dispiacciono le sue prove e poi perché… è pure un bel ragazzo, il che non guasta.
 
Ci imbattiamo letteralmente nel suo lungometraggio d’esordio Lo chiamavano Jeeg Robot e rimaniamo folgorati. In apparenza è un prodotto semplice semplice, ma visto con la dovuta attenzione, è di una complessità mostruosa che si presta a più chiavi di lettura.
Strappare un sorriso al cinema è complicato, riuscirci attraverso un drammatico lo è ancora di più. Quello che ci appare -in alcuni punti ben precisi- è un “riso amaro”, ricco di sfaccettature macabre che più dark non si può; un riso isterico, assurdo, folle, malato, insano, sadico, allucinato, che non dovrebbe esserci perché è dolore, sofferenza, comportamenti infimi quelli a cui assistiamo. Ma, a volte, nella realtà non siamo forse in grado di “sorridere” e/o fare della bieca comicità su talune disgrazie e sofferenze del mondo?
 
Ed è qui che fa la sua entrata Lo Zingaro, interpretato da Luca Marinelli: un personaggio a metà strada fra il più classico dei Joker e il più schizzato -in negativo- dei Cappellai Matti. E con lui emergono bassezze e desideri di potere autolesionista, quella parte “marcia” e oscura che si nutre di quella sete di onnipotenza ossessiva, delirante e psicotica, perché cresciuto in un contesto che non da alternative. Sullo sfondo una Roma allo sfascio (mai così attuale!), sunto di qualsiasi luogo del pianeta “infettato” da mentalità sclerotizzate.
E in contesti simili è facile trovare un Enzo CeccottiClaudio Santamaria– qualsiasi: inetto, che implode e sprofonda sempre più nelle sue bassezze, totalmente invischiato nella torbida palude di non-futuro che lo circonda; che imperterrito si cela al mondo e lo rifiuta, sentendosi a sua volta rifiuto, rifiutato.
 
Incredibilmente sfaccettato il personaggio di Alessia, interpretato da Ilenia Pastorelli alla sua prima volta come attrice: è questo forse il ruolo più bello e duro che sia stato pensato per una donna negli ultimi decenni. Con la sua aria svampita e svalvolata è in grado -questo personaggio- di donare leggerezza, respiro, fantasia, speranza all’intero film ed allo stesso tempo, conferire uno spessore aggiuntivo alla trama, senza riversare ulteriore dolore al dolore già esistente (nonostante le confessioni fatte) bensì regala dolcezza, amore, puerile tenerezza e preserva quel candore che, in una quotidianità allo sfascio, morirebbe senza far rumore.
 
Lo chiamavano Jeeg Robot, dopo i vari e molteplici premi vinti un po’ ovunque, è stato inserito nella lista dei 7 film dalla quale poi sarebbe uscito il titolo che rappresenterà l’Italia agli Oscar 2017 (il titolo scelto alla fine è stato Fuocammare di Gianfranco Rosi) e in cuor nostro, speravamo che l’opera di Mainetti potesse rappresentarci, non solo per il modo in cui è stato realizzato e per le interpretazioni che lo caratterizzano, ma anche perché è un inno alla vita: il fidarsi degli altri, il credere negli altri e dargli fiducia, ingurgitando avidamente quanto di più buono e bello possa esserci (oltre e non soltanto al dessert alla vaniglia!), perché solo con uno slancio di pura e tenera bellezza ciascuno di noi può diventare un supereroe e risolvere così le sorti di questa nostra violentata esistenza, abbattendo una volta per tutte i muri -di qualsiasi entità- eretti sino ad oggi. E ancora: fa piacere scoprire che la matita nera sfumata intorno agli occhi, stia bene non solo a Johnny Deep
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(correva l’anno 2016 e scrissi questo articolo per una Webzine internazionale: mi piaceva l’idea di farvelo leggere anche qui sul blog)
 
 
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