L’Italia è un paese assai bislacco, ad esempio, dati alla mano confermano che vi sono più scrittori che lettori. Tutto ciò è molto triste: per i mancati lettori intendo. Il non potere o non volere o non saper esprimere un proprio pensiero, il proprio punto di vista, forse è proprio ciò che ci porterà alla rovina più totale.
 
Ma anche l’innalzarsi a scrittore, può essere assai pericoloso. Come l’episodio che mi capitò lo scorso anno: mi giunse voce che ci sarebbe stata la presentazione di un libro di un autore esordiente. La cosa in verità mi solleticò assai poco perché (dopo le dovute ricerche svolte per capire chi fosse l’autore e soprattutto la pseudo casa editrice) il titolo mi ispirava una curiosità pari a 0 e la grafica di copertina mi sembrava al quanto orripilante. La faccio breve: non andai alla presentazione. E da fonti più che certe con le quali mi confrontai in seguito e attraverso le quali ebbi modo di toccare con mano “la cosa”, feci bene a non andare: l’impaginazione lasciava a desiderare, il testo in questione era pieno di orrori di qualsiasi entità, il tutto non aveva un filo logico e persino l’autore con fare perplesso e terrorizzato, non sapeva e non aveva la più pallida idea di cosa parlassero quelle paginette male assemblate.
 
Uso il termine “paginette” non in senso denigratorio (fece tutto l’autore!), ma perché l’opera in realtà era -tra l’altro- volutamente brevissima. Come quasi a voler dimostrare che quelle povere anime dedite all’autolesionismo della lettura, al di là di un tot di pagine non si spingono oltre. Nulla di più errato!! Non è il numero delle pagine e decretare la buona o la cattiva riuscita dell’opera, quanto piuttosto il come le parole vengano usate all’interno della narrazione e quali parole siano scelte, tanto per iniziare. Ecco: queste sono le uniche due condizioni -di base- alle quali un esordiente dovrebbe riferirsi, nient’altro.
 
Per questo un volume di 679 pagine non mi spaventava affatto. A “spaventarmi” fu ben altro.
 
 
 
Volevo da tempo leggere qualcosa di Giorgio Faletti, ma riuscii a leggere solo il postumo La piuma. Mi mancava qualcosa però, qualcosa che dovevo aggiungere a quella narrazione incantata e dolente. Mi mancava forse la sagacia delle battute affilate, come quegli occhi vispi e curiosi che la me bambina vedeva attraverso uno schermo e provava per quegli occhi soggezione, attrazione e profondo rispetto. Per quanto puerile possa essere, per me Giorgio Faletti sarà sempre Chuckles: personaggio di Toy Story 3 da lui doppiato, che si trova a dover attraversare varie condizioni esistenziali, tanto positive quanto drammatiche, sino a ritrovare il giusto equilibrio e una nuova accettazione di se. Leggendo ad alta voce Io uccido pubblicato da Baldini Castoldi Dalai, ho avuto come l’impressione che a raccontare in quel modo vivo e struggente fosse proprio Chuckles.
 
Non vi racconterò la trama, come da mia consuetudine, ma vi basti sapere che per non anticipare nulla anche a me stessa degli intrecci, ho assai sobbalzato nel constatare che:
 
  1. ho iniziato a leggere il thriller una sera di maggio
  2. ad un certo punto compare un cimitero e piove
  3. il tutto si concluse in un’afosa giornata d’estate
  • la vicenda prende il via una sera di maggio (!)
  • mentre nel libro pioveva, qua in paese iniziò a piovere con tanto di tuoni belli forti (!!)
  • in questo preciso momento abbiamo 32° a casa (!!!)
Coincidenze forse, ma ammetterete siano inquietanti ed io non sono particolarmente “coraggiosa”, sebbene a casa mia storie con indagini da risolvere sono sempre state presenti. Sebbene il numero delle pagine ravvicinino il libro ad un’aspirate arma contundente, la narrazione di Giorgio scorre fluida come acqua corrente e racchiude una scrittura potente eppure essenziale. Mai un termine fuori posto, mai un’espressione di pensiero contorta.
 
Il tutto è vivo (!) e si stacca dalla pagina divenendo immagine nitida e limpida. E tutte le 679 pagine sono necessarie appunto a srotolare l’intricata natura della storia. Se ne avesse utilizzata qualcuna in più o qualcuna in meno, non sarebbe stata la stessa cosa.
 
Chuckles racconta ed il suo racconto “respira”: concitatamente all’inizio, poi più piano e quasi “stanco” nel mezzo, controllato e adrenalinico sul finale. É come esserne totalmente avviluppati: non ci si riesce a staccare da ciò che viene mostrato sotto gli occhi increduli; il tempo presente diviene un “accessorio” da mettere momentaneamente in pausa, esiste solo il “tempo della narrazione thriller”, che assorbe ogni cosa.
 
É questa una scrittura che si muove dall’interno verso l’esterno, anche se l’interno appare come un qualcosa che va a comporsi gradualmente come tanti tasselli di uno stesso puzzle che riesce finalmente a risolversi, nonostante le tante cose alle quali si è assistito ed ai particolari che vanno scovati come in una macabra caccia al tesoro.
 
Bellissima la figura del detective dell’FBI Frank Ottobre, che così tanto mi ha riportato alla mente J.J.Gittes -l’investigatore privato del film di Polanski “Chinatown“-: le cicatrici e gli struggimenti hanno il “dono” di far riconoscere gli uomini fra loro, come avviene per determinati profumi e fragranze.
 
Faletti non era uno scrittore. O meglio: non era solo uno scrittore. Meglio ancora: non solo era uno Scrittore ma anche uno Sceneggiatore (in entrambi i casi con la S maiuscola). Il suo modo di mettere su carta la storia da narrare, mi riporta alla mente quelle regole non scritte apprese durante dei corsi di sceneggiatura e cinematografia ai quali ho preso parte: gli sceneggiatori da premi Oscar nei loro manuali suggeriscono -in poche parole e fra le altre cose- di iniziare a scrivere solo e nel momento in cui avremo ben in mente quale sarà l’immagine ultima dell’intera storia. 
 
Questo fa si che la trama sia una trama pensata, dove magari è stato di più il tempo impiegato nell’atto dell’idearla e delle ricerche, che non il tempo in se della scrittura: questo deve essere stato rapidissimo. E dico ciò perché non ho avuto quella sensazione di distacco che provo quando mi trovo a leggere libri costruiti “capitolo dopo capitolo e poi vediamo che succede”: così non funziona e non sarà mai fattibile! É qui invece presente uno studio a monte ben preciso, magari settato nei minimi particolari su appunti o post-it appesi ad una lavagna o fissati su di un paradigma flessibile, malleabile e precisissimo. Chissà. 
 
Altrettanto interessante è la costruzione dei singoli personaggi: tanto dei vivi quanto delle vittime; di nessuno di essi la superficie basta a se stessa: c’è sempre dell’altro, più giù, in fondo, uno strato spesso, sovente oscuro, necessariamente da celare. Non sono un’amante dei flashback, ma quei pochi presenti in queste pagine sono a loro volta necessari, funzionali, ben dosati ed inseriti con cura, oserei dire con amore e rispetto. 
 
Le telefonate sono a dir poco agghiaccianti! Ancora Interessante è vedere come -di volta in volta- il tono di descrizioni e linguaggio cambi e si evolva. Dalla prima parola e grossomodo sino al primo duplice omicidio, il mio affanno era per il “Chi è stato“. Ma al ritrovamento dei primi due corpi il chi è passato quasi in secondo piano lasciando prevalere il “Perché”, data l’apparente mancanza di movente. Mi sono fermata e confesso che -da appassionata di tutta quella cinematografia che prevede indagini, agenti, commissari, vittime, ecc…- ho realmente fatto questo: ho stilato un profilo del killer analizzando il suo modus operandi ed ho realizzato due elenchi, uno con le caratteristiche effettive del profilo e l’altro con ipotesi su caratteristiche contrarie alle effettive, basate su mie supposizioni. Magari sono pazza, ma è stato “divertente”: è stato come giocare con Faletti, sfidare il narratore onniscente. La cerchia dei miei indiziati si strinse su due soli nomi più un’ipotesi, ebbene: l’ipotesi era giusta; il nome l’ho sbagliato, era l’altro. Ma c’ero quasi. 
 
In realtà ogni elemento di questo lavoro è presentato in una duplice veste, esattamente come il positivo e il negativo di una stessa fotografia, in cui però -di alcuni elementi- le caratteristiche principali risultano invertite. Mi spiego meglio. Nel mondo occidentale, da sempre al buio è associata ad esempio la pericolosità della notte, l’oscura malvagità, le ombre che a poco a poco ingoiano tutto, l’essere privi di una possibile via di fuga, la morte; alla luce invece si associa la chiarezza, la positività, il tornare a respirare, una condizione migliore, la vita. In Io uccido, avviene l’esatto contrario: il buio è sinonimo di azione, libertà, movimento, ritorno all’essere attivi, alla vita; mentre invece la luce acceca, abbaglia, confonde, cela, soffoca nella sua fissità e nel suo essere asettica e fintamente pura e rigeneratrice. 
 
E sebbene sia buio che luce siano entrambi figli del sole, è curioso che proprio l’ultimo capitolo così taciturno, immobile e fisso, mi abbia riportato alla mente della musica e precisamente: brano n.6 disco 1 dell’album Marinai, profeti e balene di Vinicio Capossela pubblicato nell’aprile del 2011, La bianchezza della balena. Messo da parte il riferimento esplicito a Moby Dick e prendendo il testo come una metafora, le parole e la drammaticità della composizione appaiono come soluzione a tutti gli elementi seminati lungo il thriller ed appare come (forse!) l’unica colonna musica possibile qualora si trasferisse la trama sul grande schermo, affinché il mondo intero possa lasciarsi incantare dalla maestria e dalla potenza della scrittura di Giorgio Faletti.
 
 
Al link seguente è possibile ascoltare il brano di Capossela, La bianchezza della balena.
 
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